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3 ragioni per cui il feedback è più dannoso che utile

Le trappole del feedback: perché è più dannoso che efficace?

di Irene Morrione

Ultimamente in molte organizzazioni si è diffusa la cultura del feedback, che ha iniziato ad essere parte dei processi strutturati di sviluppo all’interno delle aziende. 

Questo cela sicuramente un’intenzione positiva poiché sprona i manager a dare con costanza o in momenti strutturati dei riscontri alle proprie persone: sia di rinforzo, quindi su ciò che ha funzionato rispetto alle competenze messe in atto e ai risultati ottenuti, sia di sviluppo, dunque sugli aspetti da migliorare. 

Purtroppo, nonostante le buone intenzioni, questo momento si traduce spesso in un grande fallimento, non solo perché le persone il più delle volte non sanno dare i feedback, quindi tramutano queste occasioni per dirsi delle cose in maniera giudicante e colpevolizzante (invece che in chiave di sviluppo, ovvero collegando il feedback a fatti e  situazioni concrete), ma anche perché il feedback in sé, anche se dato nel migliore dei modi e con le migliori intenzioni, può risultare più dannoso che utile.  

Ecco 3 ragioni…

 

1. PROIEZIONI 

Il feedback risente del meccanismo della proiezione. Capita spesso di ritrovarci a tradurre aspetti che ci infastidiscono di noi stessi in aree di crescita per gli altri. Sono una persona molto severa e giudicante con me stessa, dunque tenderò ad essere sensibile al giudizio degli altri e potrei essere tentato di restituire ad un’altra persona proprio questo aspetto come area di sviluppo. Oppure sono molto preciso, mentre vorrei essere creativo, e dunque potrei percepire il lavoro di un collega creativo come troppo astratto e inconcludente e restituire un feedback proprio su questo . 

Questo è il motivo per cui quando qualcuno esordisce con “posso darti un feedback?” la mia risposta è sempre “no”. Se senti l’esigenza di darmi un feedback, senza che ce ne sia ragione specifica o che io te l’abbia chiesto, nel 90% dei casi si tratta di una tua esigenza che deriva da una tua proiezione.  

 

2. SCOLLAMENTO DELLE AREE DI SVILUPPO DALLE QUALITÀ

Secondo il modello delle qualità autentiche di Daniel Ofman, che ho recentemente avuto modo di conoscere grazie a Stefania Venettoni, coach di ampia visione e profonda competenza, ogni persona è dotata di un set di qualità autentiche, che caratterizzano la persona al suo meglio. Queste però, se messe in atto in maniera estrema, possono tramutarsi in comportamenti disfunzionali, che Ofman definisce “trappole”.

Cosa vuol dire? Vuol dire che una persona precisa, ad esempio, se estremizza la sua precisione, magari sotto stress, può diventare molto pignola (troppo pignola) e perdere dunque di vista la visione di insieme. Immaginiamo un manager, allenato e competente nel dare feedback di sviluppo: con molta probabilità, in questo esempio, si concentrerà su ciò che la persona può migliorare, ovvero sviluppare una visione d’insieme, indicando le situazioni concrete in cui non avere avuto visione d’insieme ha avuto un impatto negativo sui colleghi, sull’organizzazione o sulla performance. Questo tipo di feedback però se scollegato dalla qualità che si cela dietro la trappola, risulterà irricevibile e, se non peggio, dannoso. Nessuno vuole rinunciare alla proprie qualità autentiche! La riflessione utile sarebbe quella che Ofman chiama “sfida” ovvero, come fare un passo verso la visione d’insieme mantenendo la qualità della precisione?

 

3. PERDITA DI SPONTANEITÀ NELLA RELAZIONE

Quando si applicano dei modelli di restituzione del feedback come ad esempio il tanto diffuso (e da me odiato)  modello “a panino” (ti dico una cosa che ho apprezzato, poi un’altra da migliorare e poi una terza che ho apprezzato) inevitabilmente si perde di spontaneità, si recita un copione manipolatorio, peraltro ormai molto conosciuto, che mette l’altro sulle difensive piuttosto che generare un sano ambiente di fiducia e scambio autentico. 

Come uscire dunque da queste empasse? 

La mia risposta è molto empirica: lavoro ogni giorno con team di diverse aziende in tutti i settori  e i team che funzionano meglio non sono quelli dove le persone si danno feedback strutturati, ma quelli dove le persone si dicono le cose, assumendo la migliore intenzione da parte dell’altro e, soprattutto, in maniera tempestiva e contestuale, autentica e spontanea. 

Dunque le organizzazioni, invece che insegnare ai manager a dare feedback con modelli e modellini vari, credo farebbero meglio a interrogarsi su come favorire una vera cultura del dialogo, su come nutrire un clima di sicurezza psicologica in cui le persone si sentano ok a dire le cose anche quelle scomode e potenzialmente conflittuali. Un clima dove la vulnerabilità e l’errore siano elementi non solo accettati, ma accolti ed incoraggiati. Siamo ancora molto lontani.  

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